VI.

Francesco Petrarca

1. La vita

Il Petrarca nacque il 20 luglio 1304 ad Arezzo da Eletta Canigiani e da un fiorentino esule bianco, come Dante: il notaio Petracco, il cui nome, già deformato spesso in Patrarca, fu poi dal poeta latinizzato e nobilitato nella precisa forma del proprio cognome.

Poi il fanciullo seguí il trasferimento del padre e della famiglia (aveva un fratello minore, Gherardo) prima da Arezzo e Incisa a Pisa, nel 1311, e quindi, nel 1312, in Provenza, dove ser Petracco trovò una sistemazione presso la corte papale ad Avignone, ma dovette (per la grande penuria di abitazioni della città da poco divenuta sede della Chiesa romana) mandare la famiglia nel vicino e piú piccolo centro di Carpentras. Qui Francesco intraprese lo studio delle arti del trivio (grammatica, retorica e dialettica) per poi, molto precocemente, a dodici anni, iniziare a Montpellier lo studio universitario delle leggi, proseguito, dal 1320 al 1326, nella grande università di Bologna.

Ma gli studi giuridici non corrispondevano alla vera vocazione del giovane, che già a Bologna alternava una vita studentesca spensierata ed elegante ad un iniziale studio ed esercizio della poesia e che, dopo la morte del padre (la madre era morta alcuni anni prima), poté interamente abbandonare gli studi universitari e, ritornato ad Avignone (dove prese gli ordini minori ecclesiastici aprendosi cosí la via ad impieghi e prebende di cui la capitale cattolica era particolarmente abbondante), poté seguire le sue inclinazioni giovanili per la galanteria e la poesia.

Se la vita galante e mondana fu poi aspramente giudicata, e forse anche esagerata, dallo stesso scrittore in vari documenti autobiografici piú tardi, l’amore per la poesia rimarrà elemento fondamentale della sua vita e ad esso si collegherà indissolubilmente quella stessa alta vicenda sentimentale e amorosa (ben diversa dalle avventure mondane da cui il Petrarca ebbe due figli naturali, Giovanni e Francesca) che venne a costituire come la base salda di tutta la sua ricca vita di sentimenti e di fantasia.

Questa vicenda, e cioè l’amore per Laura (la donna da lui vista nella Chiesa avignonese di Santa Chiara il 6 aprile 1327 e morta poi il 6 aprile del 1348), rimane in realtà assai misteriosa e assolutamente imprecisabile. E tutti i tentativi fatti per identificare la donna amata e cantata dal Petrarca risultano insoddisfacenti (compreso il piú antico e noto che identifica Laura con Laura de Noves sposata De Sade).

Ciò non porta a concludere che il Petrarca si sia inventata la donna come pretesto di poesia (l’Alfieri in uno scatto contro le ricerche pedantesche disse che il Petrarca avrebbe potuto cantare anche la propria gatta!), ma che la vicenda biografica reale fu fortemente trasformata dalla immaginazione petrarchesca e Laura divenne cosí assolutamente una figura femminile tutta rivissuta nell’intimo, tutta trasformata e arricchita secondo le aspirazioni del poeta e le caratteristiche del suo tormento spirituale: sí che la stessa identificazione della donna reale ci interessa assai relativamente. Sarebbe sciocco negare la realtà di un amore sollecitato da una donna reale, ma è anche sciocco affannarsi a ricercare la precisa identificazione della donna.

Piú importa sottolineare l’importanza eccezionale di questo amore poetico intorno a cui il Petrarca riuscí, a lungo, a ricondurre e armonizzare i suoi sentimenti piú profondi e piú intimi, i suoi contrasti mondani-religiosi, la sua inquieta e morbida sensibilità.

A questa vita intima e poetica, pure alimentata dall’esperienza e dallo studio di quei classici a cui tanto guarda il cultore dell’incipiente umanesimo, corrisponde, in maniera meno diretta di quanto avvenisse nel caso di Dante, una vita pratica molto bene amministrata sia per quanto riguarda sistemazioni vantaggiose e comode sia per quanto riguarda la stessa costruzione di una solida fama e di un alto prestigio culturale. Tanto che assai presto il Petrarca divenne letterato e uomo di cultura notissimo e celebrato, e piú tardi potrà intervenire autorevolmente persino presso i potenti con consigli morali e politici, in una posizione di autorità soprattutto culturale e letteraria, diversa da quella dell’appassionato e impegnatissimo Dante.

Prima, intorno al ’30, entrò nella cerchia di amici e familiari dei Colonna e soprattutto del cardinale Giovanni presso il quale rimarrà fino al ’47, alternando il soggiorno ad Avignone e nella casa campestre di Valchiusa con viaggi in Francia, nelle Fiandre, nella Renania, a Napoli, a Roma (dove l’8 aprile del ’41, dopo un esame fattogli dal dotto re Roberto di Napoli, viene incoronato poeta sul Campidoglio), a Parma, amata da lui soprattutto per la villeggiatura di Selvapiana, altro luogo adatto al suo bisogno di solitudine, di pace campestre e di raccoglimento. A questo bisogno sempre piú lo conduceva il crescente senso di una crisi intima e religiosa che trovò stimolo prima nella conversione del fratello Gherardo, fattosi monaco certosino nel ’43, poi nelle stesse vicende sfortunate di quell’impresa di Cola di Rienzo che fortemente scaldò l’entusiasmo del Petrarca per una restaurazione della repubblica romana capace di ridar pace e gloria all’Italia, e infine nella morte di Laura nel ’48.

In quell’anno egli aveva perduto il suo potente protettore, il cardinale Colonna, e cosí, nel 1353, dopo qualche esitazione egli accolse l’invito del nuovo signore di Milano, l’arcivescovo Giovanni Visconti, a gradire la sua ospitalità in cambio di alcune illustri incombenze di ambascerie, per le quali egli andò, fra l’altro, a Praga presso l’imperatore Carlo IV e a Parigi presso il re Giovanni.

Solo nel ’61 abbandonò i Visconti per divenire ospite della repubblica di Venezia, dove egli pensava di stabilirsi definitivamente, pur accogliendo inviti saltuari a Pavia presso i Visconti o a Padova presso i Carraresi. Ma un attacco violento contro di lui e la sua presunta arretratezza culturale da parte di alcuni giovani filosofi averroisti lo indusse a lasciare Venezia per Padova. E nelle vicinanze di Padova dal ’68 in poi abitò soprattutto nella casa, ancora esistente, di Arquà, dove poté piú interamente realizzare il suo desiderio di una vita solitaria fatta di quiete campestre e di intensissimo studio: leggeva e scriveva quasi continuamente riducendo il sonno a pochissime ore, in attesa della morte che lo colse il 19 luglio 1374, appunto ad Arquà.

2. Mondo interiore e prospettive storiche nel Petrarca

Già da certi elementi e fatti della sua vita si può capire come il Petrarca abbia vissuto un’esperienza molto diversa da quella dantesca. Si pensi cosí alla mancanza, nella sua vita, di un centro concreto di impegni e di esperienze costituito per Dante dalla città, dalla patria comunale, da Firenze.

Se ciò deriva dalla condizione della sua famiglia esule, piú profondamente corrisponde ad una diversa prospettiva generale della personalità storica del Petrarca che, nella crescente crisi della civiltà comunale (i comuni sono in crisi per un mutato rapporto economico-sociale fra le classi cittadine che provoca il bisogno di una maggiore pace interna, il bisogno di un signore capace di assicurare un sicuro equilibrio interno e la difesa esterna, sgravando i cittadini dei loro obblighi militari e politici), non guarda piú alla città, ma all’Italia, mentre la sua concreta esperienza di viaggi e di vita presso varie corti e in varii paesi europei lo porta a sentirsi esponente di una civiltà piú aperta e cosmopolitica, meno particolaristica e insieme, d’altra parte, meno saldamente dominata da ideali universalistici quali erano stati, fino a Dante, gli ideali dell’Impero e della Chiesa: le due grandi istituzioni che nel corso del Trecento vengono perdendo la forza materiale e ideale che avevano avuto nei secoli precedenti.

Il Petrarca ben avverte i segni crescenti e sempre piú vistosi della crisi dei comuni, dell’impero, della Chiesa e non ha piú la forza e la volontà, che Dante aveva avuto, di opporsi a quella crisi in nome di quelle stesse istituzioni e di quegli ideali. Egli sente la debolezza di quelle istituzioni ormai in crisi, senza riuscire d’altra parte a proporre nuove istituzioni e nuovi ideali precisi. E perciò si rifugia nel vagheggiamento appassionato di un lontano passato: l’impero e la repubblica dell’antica Roma (donde il suo oscillante riferirsi ora ad un impero riportato alla sua antica grandezza e romanità, ora ad una repubblica rinnovata dall’impresa di Cola di Rienzo, che lo attrasse e lo deluse, poi, con il suo misero esito), la Chiesa riportata alla sua purezza evangelica e primitiva e cosí contrastante con la Chiesa avignonese e con la sua corruzione morale e la sua mondanità. Avvertendo piú oscuramente la logica nuova delle nazioni e degli stati nazionali che si venivano formando in Europa, Petrarca sogna un’Italia, se non unita sotto un signore unico (a cui pur pensa a volte), almeno internamente concorde e pacifica per un accordo fra le città, fra i signori, e capace di rintuzzare le offese esterne e le ferite inferte dalle straniere soldataglie di ventura.

Cosí egli indubbiamente apre la via al sorgere di nuove prospettive che verranno prendendo corpo solo piú tardi nella storia (l’idea della nazione italiana, l’idea di una Chiesa rinnovata e riformata), ma le intravvede ancora vagamente e le mescola con sogni alti ed astratti di una restaurazione di antichi ideali dell’epoca classica e del cristianesimo primitivo.

Ciò che piú fortemente vive e si esprime in lui è la coscienza della crisi storica presente, sicché, mentre Dante dalla diagnosi del presente risale a un impegno attivo e positivo, Petrarca soffre soprattutto la crisi del presente e di questa evidenzia nelle sue opere i caratteri, piú in contrasto con aspirazioni generose che con precise e ben configurate nuove istituzioni.

E ugualmente, mentre Dante è sorretto da una possente fede e da un pensiero sicuro, Petrarca avverte i limiti della filosofia medievale scolastica, vive la crisi di questa, aspira a un pensiero piú aperto e duttile, piú capace di corrispondere alla realtà molteplice e contrastante dell’uomo, ad una religiosità piú intima, meno dogmatica e piú aderente alla drammatica situazione dell’uomo, tormentato dal senso del peccato e bisognoso piú di complessi strumenti di comportamento morale che non di astratti principi generali.

Egli cosí apre indubbiamente la via ad esigenze piú moderne e piú nuove, ma non riesce a superare di per sé una situazione di crisi e di aspirazione con la sicura impostazione e il sicuro esercizio di un nuovo pensiero e di una nuova religione.

Tutto ciò concorre nella delineazione di una personalità che corrisponde intimamente al travaglio di un’epoca in crisi, si configura in una posizione ed esperienza di crisi e mostra cosí la sua profonda storicità. Alla forza e organicità di Dante si contrappone nel Petrarca una nuova mobilità e ricchezza di spunti, di avvii, di aspirazioni, di rimpianti, di critiche polemiche. E, psicologicamente, una estrema irrequietezza, un essenziale contrasto fra desideri e possibilità concrete, fra esigenze di purezza, di fede religiosa e l’ansia di beni mondani.

Può dirsi cosí che nel Petrarca si precisi la crisi della civiltà medievale perché, anche se spesso riaffiorano in lui motivi legati al Medioevo, in realtà essi si presentano intimamente venati di esigenze nuove e soprattutto non trovano piú l’equilibrio, la circolarità, l’organicità che essi avevano avuto nella civiltà medievale fino a Dante.

Mentre, d’altra parte, a meglio chiarire la posizione di crisi del Petrarca entro la documentazione ed espressione concreta delle sue opere, dovrà ribadirsi il fatto che le sue nuove esigenze non riescono a concretarsi interamente in precisi nuovi ideali attivi e operanti e rivelano una loro essenziale interna irrequietezza e oscillazione. Sicché gli stessi motivi umanistici o, meglio, preumanistici del Petrarca (l’amore della gloria, l’ideale dello studio dei classici e del perfezionamento morale attraverso le «humanae litterae», l’aspirazione alla restaurazione del mondo classico) trovano combinazione e contrasto con motivi di origine cristiana e religiosa in una prospettiva piú fertile e ricca di irrequieti spunti ed esigenze che non saldamente unitaria ed organica.

Anche nei riguardi della letteratura e della poesia la posizione del Petrarca è mutata rispetto a quella medievale e dantesca, e prelude alle idee e agli atteggiamenti degli umanisti del secolo successivo.

Non solo chiaro è in lui l’essenziale rapporto dello scrittore moderno con la lezione dei classici, alla cui piú corretta comprensione egli assiduamente si applica, ricercandone nelle biblioteche monastiche i testi perduti e non identificati nel periodo medievale e di cui cerca di imitare originalmente la perfezione formale, l’eleganza stilistica.

Ma la letteratura e la poesia vengono da lui considerate nel loro grande valore specifico e la figura stessa del letterato viene concepita in maniera piú autonoma e libera, in una dignità che deriva anzitutto dalla sua stessa perizia artistica, dal suo stesso impegno di studio e di cura stilistica che gli permettono di esprimere idee e concezioni piú di quanto ciò possa riuscire agli altri uomini. E perciò il letterato, lo scrittore, il poeta, pur vivendo nel proprio tempo, tende a riservarsi una posizione piú libera e superiore alla contingenza delle lotte politiche, a conquistarsi un prestigio che potrà permettergli di dire la sua parola ascoltata e autorevole senza legarsi interamente a quei signori, a quelle corti, a quelle potenze politiche a cui pure egli, di volta in volta, si appoggia per la sua vita pratica e a cui egli può liberamente prestare l’ausilio prezioso della sua penna.

Cosí la poesia si viene sganciando dalla sua subordinazione medievale alla teologia e alla religione e acquista una sua piú autonoma dignità e un carattere piú individuale, legato alla originalità del singolo scrittore, alla ricchezza del suo animo e alla sapienza della sua esperienza artistica. E la stessa umanità del Petrarca si mostra (come meglio potrà vedersi parlando del Canzoniere) estremamente sensibile, inquieta e analitica fino allo scrupolo morboso, bisognosa di compensi ed evasioni nel sogno e nella fantasticheria.

3. Le opere latine

All’ideale preumanistico, all’esemplarità del mondo classico e della sua saggezza si rifanno piú direttamente alcune delle opere latine con cui il Petrarca pensò di raggiungere la gloria tanto agognata e l’immortalità di poeta e di uomo di cultura e di realizzare insieme il suo entusiasmo per quel mondo classico nella cui riscoperta piú autentica e meno deformata egli volle particolarmente impegnarsi sin da una fase relativamente giovanile in cui quell’entusiasmo appare tanto piú acceso e fiducioso.

In tale prospettiva si colloca anzitutto l’Africa, un poema latino in esametri (iniziato a Valchiusa fra il 1338 e il 1341 e ripreso piú volte senza venir mai interamente compiuto), nel quale il Petrarca si proponeva insieme di restaurare l’antica poesia classica e di esprimere la sua ammirazione entusiastica per la saggezza e virtú degli antichi eroi, cantando le vicende della seconda guerra punica e la distruzione di Cartagine, seguite sulla narrazione fattane dallo storico latino Tito Livio. Ma quella intenzione venne realizzata in una versificazione piú diligente che ispirata del testo di Livio e in una emulazione della poesia epica virgiliana che non riesce a superare originalmente, per propria forza nuova, l’ambito di una imitazione elegante e sapiente. Perché come al Petrarca mancava la forza di una vera costruzione organica di poema, cosí la sua piú vera ispirazione non era epica, ma lirica ed elegiaca.

Sicché nell’Africa (che pur fece ottenere al Petrarca l’incoronazione poetica in Campidoglio) rara è la presenza della poesia ed essa si pronuncia piuttosto in direzioni e su motivi che si allontanano dalla intenzione epica e si riconducono al mondo poetico piú genuino dell’autore del Canzoniere: come nell’episodio dell’amore doloroso di Massinissa e Sofonisba, o come, piú altamente, nel lamento del fratello di Annibale, Magone, mentre egli s’imbarca, ferito a morte, per tornare in patria e pronuncia una sequenza di versi intensi e profondi sul tema elegiaco della caducità e della vanità di tutte le cose mortali, sul destino infelice dell’uomo, irrequieto ed ansioso in tutta la vita, sempre in cammino verso la morte.

E la maggiore poesia di questo passo sottolinea bene come, entro l’alto decoro letterario e l’abilità versificatrice che non manca mai in quel poema, la poesia emerga solo là dove lo scrittore tocca i suoi motivi piú vivi e congeniali e, sotto la ricerca della glorificazione epica dell’antico eroismo, rinviene motivi essenziali della sua visione vitale dolente, approfondita dalla coscienza cristiana della vanità delle cose mondane e dalla ripugnanza cristiana alla gloria guerresca e violenta.

Anche nel tentativo cosí interessante e preumanistico di realizzare, sulle orme degli esempi classici, un tipo di storiografia, in prosa latina, ispirata all’esaltazione di personalità illustri e vigorose, basata su una notevole e nuova ampiezza di ricerca erudita (gl’incompiuti Rerum memorandarum libri, che narrano vari episodi storici raggruppati intorno alle virtú che in esse si realizzano; l’opera De viris illustribus che iniziata nel ’38 non trovò mai compimento, malgrado le riprese continuate fino agli anni piú tardi, e che raccoglie biografie di illustri uomini romani), accanto e al di sopra dell’intenzione di glorificazione e di esemplarità degli uomini del mondo classico, si rivela il fondo piú vero dell’animo petrarchesco; sia nel prevalere di una interpretazione delle vicende individuali come fortemente legate a casi e occasioni che complicano l’esaltazione delle virtú e mettono in evidenza anche la fragilità e la debolezza umana, sia nell’accentuazione frequente di sentenze pessimistiche, di riflessioni e confessioni dei personaggi indagati nella loro complessa psicologia e sentiti come interpreti e voci di una concezione vitale, quale è quella del Petrarca, piena di dissidi, di oscillazioni, di crisi, piú volta all’introspezione che all’azione.

Cosí, nella piú tarda raccolta di dodici ecloghe latine, il Bucolicum carmen, sull’ideale preumanistico della gloria prevale quello della contemplazione e della meditazione religiosa che supera ogni desiderio di cose mondane e conduce alla pace nella visione di Dio.

E cosí nei trattati in prosa latina (De vita solitaria, De otio religioso, De remediis utriusque fortunae) il tema della solitudine adatta alla vita religiosa si associa a quello della solitudine libera da fastidi e preoccupazioni pratiche, propizia alla meditazione morale, allo studio, all’attività letteraria.

Sicché certi altri elementi del nascente ideale umanistico (studio assiduo e intensa attività letteraria anche come mezzo di perfezionamento morale) si fondono con esigenze religiose e cristiane di intimità, di raccoglimento meditativo, di esplorazione della propria coscienza, sulla via di quella indagine del proprio animo e di quel bisogno di confessione che il Petrarca trovava aperta nella tradizione cristiana, soprattutto da sant’Agostino, l’autore delle Confessiones, e confortata, nella tradizione classica, dagli esempi di opere ciceroniane e senechiane.

In tale direzione (studio e attività letteraria, culto della poesia e insieme meditazione e confessione morale e religiosa) il Petrarca è condotto a prendere posizione polemica contro alcune tendenze del pensiero trecentesco volto ad esaltare le scienze naturali al di sopra di quelle morali e della poesia (il caso della petrarchesca De sui ipsius et multorum ignorantia, scritta nel 1367 e rivolta contro quattro filosofi veneziani) o addirittura contro la stessa filosofia scolastica e aristotelico-tomistica (il caso degli Invectivarum contra medicum quendam libri VI, del ’52-53), considerata come una filosofia troppo astratta e sistematica e combattuta in nome di una filosofia piú umana e concreta, intesa a proporsi e a discutere piú spregiudicatamente i problemi creati dalla complessa natura dell’uomo e dal suo bisogno di trovare modi di comportamento morale piú che principi universali e rigidi.

Documento ricco e vivo della vita interiore del Petrarca e della sua crisi, che personalmente riflette la crisi della sua epoca, sono poi le grandi raccolte di lettere in latino: le Familiares in ventiquattro libri, le Seniles in diciassette, l’epistola alla posterità, le diciannove lettere Sine nomine, cioè senza destinatario, le Variae, tutte in prosa, e i tre libri delle Epistolae metricae in versi.

Non che in queste lettere il Petrarca si abbandoni a forme tutte immediate e confidenziali e manchi di propositi letterari ed artistici. Infatti esse vennero rivedute, rielaborate, condotte sempre ad una misura artistica di alto livello e ordinate e preparate per una pubblicazione e quindi ben coerenti a quell’ideale di forma perfetta e di opera artistica che è fondamentale nelle preoccupazioni del Petrarca.

Ma ciò non toglie che entro questa cura artistica le raccolte delle lettere rivelino piú interamente i motivi e i caratteri dell’animo e dell’esperienza vitale e storica del Petrarca quali siamo venuti già precedentemente indicando: il sentimento della vanità delle cose terrene e della veloce fuga del tempo e della vita umana, la nostalgia del grande passato classico in confronto con un presente decaduto e avido di ricchezza e di falsi beni, il piacere di una vita solitaria e campestre, modesta, libera, meditativa e poetica di contro al fastidio della vita rumorosa, dispersiva, affannosa delle corti e delle città, il dissidio delle passioni, la coscienza di tale dissidio e del contrasto fra religione e tentazioni mondane, il piacere e il tormento dell’amore, vagheggiato dalla fantasia e dalla sensibilità e contrastato dalla volontà morale e religiosa.

Con esiti artistici e vivissime aperture sui nuclei centrali della psicologia e della situazione spirituale del poeta: come particolarmente avviene nella celebre lettera al frate Dionigi da Borgo San Sepolcro sulla ascensione del monte Ventoso in Provenza, in cui il Petrarca profondamente e minutamente descrive e rappresenta, in rapporto al paesaggio, i suoi contrasti interiori, l’ondeggiare dei suoi desideri e delle sue passioni fra speranze e timori, fra bisogno di pace ed elevazione religiosa e tenace dominio del pensiero amoroso.

Simili rappresentazioni del proprio animo in crisi preparano i grandi motivi e le grandi espressioni poetiche del Canzoniere, al quale anche piú chiaramente ci riconduce un’altra opera in prosa latina, il Secretum, scritto fra il ’42 e il ’43 (e poi ripreso e corretto fra il ’53 e il ’58).

Si tratta di un dialogo, svolto in tre libri, fra il poeta e sant’Agostino, in presenza della figura allegorica della verità che non parla, ma assicura l’assoluta veridicità della confessione che il poeta fa al santo delle Confessiones, ascoltando a sua volta, in un dialogo appassionato e sempre piú analitico, le indicazioni e i rimproveri, le esortazioni di quello.

Nel primo libro il dialogo chiarisce il fondo della «malattia» spirituale del poeta: la mancanza in lui di una ferma ed energica volontà che lo porterebbe a seguire, senza esitazioni, la via della virtú e della purezza, a rifiutare quelle tentazioni di oggetti e di affetti mondani che egli desidera superare senza però riuscirvi realmente: proprio perché la sua non è una volontà, ma una velleità vaga ed incerta, perché ciò di cui, nei suoi momenti piú lucidi, egli riconosce sostanzialmente la vanità e la peccaminosità non cessa di attrarlo e di affascinarlo presentandoglisi a volte sotto una falsa apparenza di spiritualità e di idealità.

Cosí, nei libri seguenti, il Petrarca tenterà ancora di difendere almeno le due passioni che piú fortemente dominano il suo animo: l’amore della gloria e l’amore per Laura. Ma sant’Agostino gli dimostrerà come il primo in realtà lo distragga dall’amore delle cose celesti e dalla vera immortalità che è la salute dell’anima ottenuta mediante la religione, e come il secondo, malgrado la sua apparenza di amore onesto e di avvio alla virtú e alla contemplazione di Dio, sia in realtà profondamente peccaminoso e sensuale, e abbia allontanato il poeta da Dio, facendo rivolgere tutto il suo animo ad una creatura caduca e mortale. Sicché soprattutto la passione amorosa, insoddisfatta e menzognera, lo ha condotto a quella inquietudine, a quella disperazione, a quella morbosa voluttà delle lacrime che ha fiaccato la sua debole volontà di virtú e di vita religiosa e lo ha indotto a dubitare dello stesso destino umano e della bontà della provvidenza divina.

Ma il dialogo, che cosí lucidamente e spietatamente ha permesso al Petrarca di analizzare fino in fondo la sua situazione personale di crisi, di dissidio fra cielo e terra, fra corpo e anima, fra il desiderio di virtú e di salvezza spirituale e la tentazione tenace di beni mondani, non ha una conclusione di vittoria dello spirito sulla carne, della prospettiva religiosa e morale sull’attrazione invincibile dei falsi beni sensibili e terreni.

L’interiore conflitto delle sue passioni e dei suoi desideri (come lo chiama lo stesso Petrarca nella didascalia del titolo: «de secreto conflictu curarum mearum») non viene effettivamente superato e il Secretum cosí documenta perfettamente la situazione fondamentale dell’animo petrarchesco e della stessa crisi spirituale e culturale del poeta, preso fra la concezione religiosa e trascendente in cui crede, ma che non è capace in lui di indirizzare concretamente la sua vita, e una prospettiva piú mondana, che dà forza a passioni ed affetti terreni ed umani senza riuscire a farli vivere come valori degni e validi entro una visione della vita che potrà affermarsi solo nella civiltà umanistica e rinascimentale.

Il dissidio, il conflitto, il contrasto, con le loro conseguenze di stati d’animo fluttuanti e irrequieti, di situazioni psicologiche complicate e sinuose, di ondeggiamenti incessanti e senza vera soluzione, costituiranno cosí la condizione di base dell’animo petrarchesco e della sua piú alta espressione poetica nel capolavoro del Canzoniere a cui, come dicevamo, piú direttamente introduce la lettura della confessione lucidissima e coraggiosa del Secretum.

4. Il «Canzoniere»

Il Canzoniere – o (come il Petrarca definí le liriche in esso riunite, accentuando di quelle l’origine autonoma e il carattere di «frammenti» rispetto alla intenzione organica ed unitaria di quelle opere latine cui egli affidava soprattutto la sua fama di poeta e di uomo di cultura) le «rime sparse» o «Rerum vulgarium fragmenta» – è la raccolta di trecentosessantasei componimenti poetici che in vari metri – dal sonetto alla canzone, al madrigale, alla sestina, ma con forte prevalenza del sonetto – il Petrarca stese ed elaborò in un lunghissimo arco di tempo e con un assiduo impegno espressivo ed artistico che accompagnò a lungo, dalla gioventú alla vecchiaia, l’attività letteraria in latino e le varie vicende della vita petrarchesca. Sicché esso, malgrado quanto abbiamo detto circa il valore dato dal Petrarca alle opere latine, corrisponde ad un lavoro intenso e profondo, centrale nell’attività petrarchesca, e ad una effettiva consapevolezza del suo alto valore se il Petrarca piú volte riprese, corresse, rielaborò molte delle sue liriche e piú volte volle ordinarle e prepararle per una loro pubblicazione, passando da una prima raccolta delle liriche piú giovanili intorno al 1336 a due raccolte intorno al ’58 e nel ’73, sino alla raccolta definitiva contenuta nel codice Vaticano 3195 e terminata quasi alla vigilia della morte del poeta.

L’ordinamento dato dal Petrarca alle sue liriche corrisponde ad uno svolgimento cronologico della vicenda dell’amore per Laura, che costituisce l’argomento fondamentale del Canzoniere e domina l’animo del poeta al di sopra di tutti quegli altri affetti e ideali che pur vivevano in lui e che pur trovarono possibilità di espressione in alcune di queste liriche accrescendo la complessità del Canzoniere, ma sostanzialmente ponendosi in una posizione piú laterale rispetto all’insistenza e frequenza della rappresentazione del dramma dell’amore. Non mancano infatti nel Canzoniere componimenti legati ad occasioni della vita di relazione del Petrarca (i componimenti appunto di corrispondenza con amici e protettori, di compianto per la morte di altri poeti ed amici, come Sennuccio del Bene o Cino da Pistoia) o a sentimenti e ideali civili, politici e morali come la canzone per la crociata, la canzone All’Italia, quella diretta ad un senatore romano, «Spirto gentil», o come i sonetti polemici contro la curia pontificia avignonese condannata per la sua corruzione e il suo contrasto con la Chiesa primitiva ed evangelica, povera e virtuosa.

E certo si tratta spesso di poesie ispirate e commosse, pervase da una eloquenza poetica alta e solenne, artisticamente costruite e complesse, ben significative per la profondità di alcuni grandi temi dell’animo e della cultura del Petrarca: l’esaltazione dell’antica Roma e della sua civiltà possente e saggia, l’orgoglio di quella gloriosa eredità; l’aspirazione ad una pace operosa e concorde delle città e dei principi italiani e lo sdegno per le loro lotte fratricide e stolte; il confronto doloroso fra la pienezza ed altezza del mondo classico e il tempo presente che disprezza poesia e filosofia perché tutto dedito al guadagno, al lusso, alla sensualità; il richiamo della Chiesa corrotta ai suoi compiti spirituali e alla sua originaria purezza.

E certo questi componimenti arricchiscono la complessità del Canzoniere e vanno anche ben calcolati nei loro stessi rapporti con la centrale tematica amorosa, a cui spesso corrispondono almeno per lo schema prevalente di contrasto fra realtà e desideri, per il sentimento fondamentale di crisi della civiltà contemporanea o per il sentimento pure fondamentale della vanità e falsità di beni peccaminosi e caduchi di fronte alla pace religiosa, alla virtú e alla saggezza.

Ma non riducono lo spicco, la prevalenza, non solo materiale e numerica, delle liriche amorose, non contraddicono al fatto che il tema e la vicenda amorosa sono il fulcro e la base essenziale del Canzoniere. E semmai aiutano a comprendere meglio come il tema amoroso implichi a sua volta tutta una situazione di profonda crisi, di contrasto fra ideali e passioni, fra aspirazione virtuosa e religiosa e desiderii terreni e sensibili che si presentano essi stessi in forma spesso di mezzi di purificazione e di salvezza spirituale rivelando poi, ad un’analisi piú profonda, la loro vera natura peccaminosa, entro la prospettiva petrarchesca prevalente di confessione, di analisi introspettiva, di riconoscimento di uno stato di crisi e di dissidio insanabile, di contrastante tensione al vagheggiamento e alla condanna delle proprie passioni riassunte e riassorbite tutte nella complessa e centrale passione amorosa.

Infatti l’amore per Laura è amore nel senso piú comune della parola, amore per una donna, per la sua bellezza, per il suo fascino reale, per la sua forma sensibile e corporea, ma insieme è come il simbolo riassuntivo e concreto della tensione del Petrarca verso le cose terrene, di tutte le sue passioni umane nel loro alternato ripresentarsi sotto forme di tentazione peccaminosa e irresistibile o di mezzo di spirituale perfezionamento. E la situazione di crisi, di dissidio, di ondeggiamento incessante di fronte alla persona amata e all’amore che ne deriva è insieme la situazione di crisi generale dell’uomo, nella contraddizione della stessa condizione umana.

Cosí Laura, che fu certo una donna reale, anche se difficile e poco importante è conoscere la sua precisa identità storica, il suo nome anagrafico (come, d’altra parte, pare errato volerne negare la realtà e pensarla come una creatura interamente fittizia e immaginaria), è, nella poesia del Canzoniere, una figura femminile concreta e sensibile, desiderata e indagata nella sua intera bellezza, nel suo fascino, nella sua perfezione, nei suoi atteggiamenti di ritrosia o di pietà, ed è anche insieme un simbolo di tutto ciò che il poeta desidera ed ama nell’ambito dei beni terreni, un simbolo della loro possibile apparente perfezione e della loro effettiva caducità e vanità di fronte ai beni interamente spirituali e celesti, non soggetti alla caducità e alla mobilità e incertezza di quelli terreni.

Laura è la mèta e il simbolo concreto di una passione precisa (dei cui reali avvenimenti sappiamo ben poco, ma che non possiamo negare nella sua centrale esistenza) e di tutta una ricca e complessa vita di affetti, di ideali, di passioni, di una tensione irrequieta e difficile alla felicità terrena, ad un vagheggiato accordo fra questa e la felicità celeste, e di un amaro e dolente riconoscimento della stessa vanità e peccaminosità di quella tensione e dei suoi oggetti.

La novità della figura di Laura consiste cosí nel fatto che essa sintetizza concretamente (e dunque ben lungi da una fredda allegoria) tutta la bellezza e la perfezione attribuibili al mondo terreno, tutta la difficoltà del loro saldo possesso, tutta la vanità che in loro si rivela quando siano poste a confronto della verità e realtà della perfezione celeste. E l’amore petrarchesco sintetizza a sua volta in situazioni concrete, psicologicamente definibili e rappresentabili, tutta l’inquieta vita dei sentimenti e delle passioni umane, tutta la loro incessante mutevolezza, tutti i loro sbalzi fra speranza e timore, fra illusione e delusione, tutta la loro amarezza, quando rivelano la loro inanità e insufficienza alla conquista di una salda e sicura felicità che dovrebbe e potrebbe trovarsi solo nell’esercizio della virtú e della religione.

Il Petrarca conosce cosí la via della salute spirituale, della pace interiore, ma non può realmente percorrerla («conosco il meglio ed al peggior mi appiglio», egli dice in un verso altamente significativo per tutta la sua situazione) in quanto non sa rinunciare all’attrazione di Laura e della felicità mondana.

E questa, d’altra parte, mentre non potrebbe interamente appagarlo anche se posseduta, si presenta nella figura di Laura come qualcosa di inattingibile e di resistente ai suoi desideri. Donde quel ritmo incessante di fluttuazione, di ondeggiamento degli stati d’animo del poeta nel Canzoniere, sia perché la donna, mèta dei suoi desideri, lo illude e delude continuamente, con il fascino della sua bellezza, con segni pur minimi di pietà, con la sua ritrosia e resistenza (che è poi parte di quella sua virtú che è altro elemento di esaltazione e di ammirazione per l’innamorata), sia perché, in altre direzioni essenziali del Canzoniere, essa è pure cosa mortale e caduca, non bene eterno e di per sé valido, e, al confronto con la verità del sentimento religioso, si dimostra pure elemento di tentazione, di allontanamento da Dio, causa di peccato.

Questo ritmo di oscillazione è fondamentale nel Canzoniere, e spesso anche entro una singola lirica, e permane sostanzialmente in tutto il percorso della generale vicenda del libro, anche se in questo si può cogliere una certa linea evolutiva dalle prime liriche e in genere dalla prima parte (il Canzoniere è tradizionalmente diviso in due parti: in vita e in morte di madonna Laura) alla seconda e alle liriche finali culminanti nella canzone conclusiva alla Vergine, canzone che si presenta come approdo di pentimento e di contrizione, di richiesta da parte del poeta alla madre di Cristo di una misericordia e di un aiuto a vincere definitivamente la sua passione amorosa, il suo «non giusto affanno».

Vi è dunque nel Canzoniere una certa linea di sviluppo che colpirà tanti imitatori del Petrarca («petrarchisti») volti spesso a insistere piú fortemente sullo svolgimento di una vicenda amorosa quasi romanzesca sino al pentimento finale e alla conversione totale all’amore di Dio.

E certo, a ben guardare, la considerazione giusta di tale linea è pur importante per rilevare nel Canzoniere e nell’attività lirica del Petrarca un relativo svolgimento, una storia che si riflette anche nel piú sicuro passaggio da prime esperienze artistiche relativamente piú vicine a modi della lirica duecentesca e provenzale a forme piú originali e profondamente personali: svolgimento che, nella parte «in morte» di Laura, giunge, in alcuni gruppi di liriche, ad una specie di piú pacato e dolce recupero ideale di una possibilità (non realizzata nella vita) di soave confidenza fra il poeta e l’amata se essi fossero giunti insieme alla vecchiaia e avessero potuto confidarsi le antiche pene della passione, quando questa sarebbe stata attenuata dall’età perdendo ogni carattere peccaminoso.

Ma, ben rilevata questa linea, dovrà pur riaffermarsi il fatto che la base del dissidio, del contrasto, dell’ondeggiamento tormentoso dei pensieri e dei sentimenti e la prospettiva della confessione analitica del proprio animo e della sua espressione, risolta nel canto armonico e nella perfezione dello stile, non perdono mai il loro vigore e la loro funzione essenziale nella poesia petrarchesca. La quale si alimenta, con un approfondimento e arricchimento di sfumature, di variazioni, di nuove invenzioni di situazioni e di risoluzione artistica, della fondamentale materia di una crisi mai interamente e definitivamente risolta e perciò sempre ricca di movimenti interiori, di immagini vagheggiate, di sussulti amari, di compensi dolci che poi si rivelano illusori, di spinte ardenti del desiderio e di dolenti moti di delusione e di sconforto. Sicché il lettore troppo bisognoso di precisi elementi romanzeschi e di vicende corpose e fortemente concluse può restare deluso e magari annoiato come da un ritorno continuo e monotono di alcuni atteggiamenti fondamentali perdendo di vista, in una poesia cosí sinuosa, sottile ed intima, la sua sostanziale ricchezza e molteplicità di toni e di situazioni che vanno colte, con attenzione intensa e non impaziente, entro l’unità fondamentale del dramma interiore petrarchesco e della sua espressione poco vistosa e poco esteriormente colorita e pur cosí piena di una continua novità di poesia.

Cosí come questa poesia, interamente ardente e tormentata e pur levigata e risolta in forme artistiche perfette e pure, richiede, per esser compresa e valutata appieno, un lettore che sappia intendere un altro aspetto fondamentale della lirica petrarchesca. Questa nasce, come dicevo, da un animo tormentato ed irrequieto, ha un suo fondo di ardore e di drammatica crisi, ma nella sua espressione tende a sottoporre questa materia sentimentale ad un processo di purificazione e di armonizzazione, ad un dominio sottile e profondo che la placa e la risolve in limpido canto.

«Perché cantando il duol si disacerba», dice un verso del Canzoniere (XXIII, 4). E a questo aspetto della poesia petrarchesca il lettore deve fare particolare attenzione perché esso spiega la ragione di una poetica, di un processo espressivo, che risolve il dolore e il tormento, senza spengerlo e negarlo, in una espressione melodica e armonica che ha perso le punte piú aspre del sentimento scomposto e irruente. E ciò avviene perché il Petrarca, mentre ricerca entro di sé, nel proprio animo individuale, con sottile e a volte esasperata analisi, tutti i piú segreti aspetti e caratteri del proprio tormento amoroso e spirituale, nella espressione poetica sa rappresentarli con lucido occhio e fermo senza essere mai sopraffatto dall’onda impetuosa del sentimento e senza essere cosí condotto a forme artistiche scomposte e torbide.

Anzi anche gli elementi piú passionali e torbidi e morbosi del suo dramma e della sua sensibilità inquieta e dolorosa (per cui egli apparve come il lontano precursore del romanticismo e delle sue inquietudini e disperazioni, della sua esasperata introspezione individuale ed egocentrica) vengono, entro questa prospettiva riflessiva, rappresentatrice e armonizzatrice della sua poetica, a perdere non la loro intensità intima e la loro novità, ma i loro caratteri piú pratici e di sfogo immediato, e si presentano al lettore come filtrati e depurati in un canto armonioso perfetto.

Il Leopardi parlò una volta della poesia petrarchesca paragonandola all’olio sempre denso e liquido, senza groppi e grumi. Cosí quell’altro grande poeta voleva indicare la perfetta armonia di una poesia senza incrinature e senza squilibri e pur tutt’altro che superficiale e priva di interna densità e ricchezza sentimentale e drammatica.

D’altra parte converrà anche precisare un altro punto essenziale ad avviare il giovane lettore alla comprensione di questa alta poesia, frutto dell’incontro nel poeta fra una originalissima e profonda esplorazione e interpretazione del proprio animo in crisi e un’operazione artistica tesa assiduamente e coerentemente alla rappresentazione lucida, limpida, armonica di quella intensa e autentica materia e situazione sentimentale.

Il Petrarca tendeva a rappresentare poeticamente il suo mondo interiore, cosí sottilmente analizzato, mediante un processo artistico estremamente raffinato e complesso, con un’arte che aveva assimilato la lezione e le esperienze della tradizione lirica precedente, classica e medievale, e quindi con una perizia tecnica altissima che voleva raggiungere una limpidezza e fluidità essenziale, ma non banale e comune, ed anzi elegantissima e raffinata. E perciò ricorreva anche a procedimenti espressivi ardui e complicati: metafore, simboli mitologici, contrapposizioni ingegnose, giuochi di parole sul nome di Laura (Laura-lauro, Laura-aura ecc.), versi formati da molte parole unite per troncamento ed elisione («fior, frondi, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi»), modi concettosi e inaspettati, specie nel verso finale.

A volte non mancarono eccessi, quando l’ispirazione centrale era meno sicura e forte, e quasi prove di un virtuosismo e di un’abilità tecnica che poterono far pensare a un freddo giuoco tecnicistico e intellettualistico e alla lontana origine di quel petrarchismo piú concettoso che, a sua volta, sembrò anticipare certo gusto barocco. Né va negato il fatto che in certi casi la lirica petrarchesca possa ridursi a questo livello di abilità e di tecnicismo senza veri risultati poetici.

Ma nel complesso della poesia del Canzoniere anche questi elementi di abilità e di tecnicismo sono strumento di una elevata poesia che mira ad una «difficile facilità», ad una limpidezza e chiarezza ottenuta non con l’immediatezza, ma ad un piú alto grado attraverso una conquista ardua ed esperta. E la tecnica serve al poeta per un’armonia piú complessa e non banale, come, nel suo linguaggio, la chiarezza e la purezza risultano da una scelta rigorosa e raffinata di vocaboli e di forme di discorso e non da una facilità immediata.

È anche riprova della perfezione e della profondità poetica petrarchesca la grande fortuna che il Canzoniere ha goduto, per secoli, nella nostra letteratura e in quella di tante altre lingue e nazioni moderne. Fortuna che prevalse nettamente su quella del grandissimo Dante e che, se in molti casi può essere valutata anche in relazione ad una eccessiva importanza data alla letteratura e alla figura del «letterato», evasivo e appartato dalla storia, piú raccordabile con atteggiamenti petrarcheschi che danteschi, non può in generale essere considerata solo negativamente e in rapporto a duri e astratti paragoni fra Dante e Petrarca (grande poeta il primo, grande artista e letterato il secondo). Perché la poesia petrarchesca era un esempio altissimo insieme di perfezione stilistica e linguistica e di espressione di un ricchissimo e tormentato mondo interiore, di una conoscenza della vita dei sentimenti che costituí lo stimolo e la base di esperienze tutt’altro che puramente letterarie e formali.

Basti pensare al fatto che al Petrarca guardarono con intensa attenzione poeti come l’Alfieri e il Leopardi, fra gli italiani, per capire che la poesia del Petrarca poteva essere e può essere unitamente un esempio di altissimo stile e di intensa ricchezza interiore anche per uomini che siano lontanissimi da una semplice posizione di «letterati» evasivi, senza impegno nella storia e nella vita.

5. I «Trionfi»

Gli ultimi anni della vita del Petrarca furono, come ho già detto, in gran parte spesi alla definitiva ripulitura e definizione del Canzoniere. Ma in quelli lo scrittore attese anche (oltre al completamento del ricordato De remediis) alla sistemazione di un poema in volgare e in terzine dantesche: i Trionfi. Poema che, malgrado gli sforzi del poeta, rimase incompleto a causa anche di una intrinseca ripugnanza della piú profonda e genuina ispirazione petrarchesca all’opera poematica complessa e architettonica (si ricordi anche l’incompiutezza del poema latino l’Africa) e della difficoltà di raggiungere una vera fusione fra una nuova storia poetica della propria biografia, le forme didascaliche ed enciclopediche medievali, il culto della forma perfetta e adeguata a quella dei classici.

Medievale rimase lo schema del poema articolato in sei capitoli fra loro concatenati: Trionfo dell’amore, Trionfo della castità, Trionfo della morte, Trionfo della fama, Trionfo del tempo, Trionfo dell’eternità. La castità trionfa sulla passione d’amore; la morte, che rapisce anche le persone piú caste, conferma e illumina insieme la potenza della castità sull’amore; la fama tenta di sopravvivere alla morte; il tempo con la sua caducità distrugge ogni fama e gloria; infine l’eternità, oggetto della fede cristiana, annulla il tempo. Mentre piú direttamente legato all’elemento umanistico è l’arduo sforzo stilistico di adeguazione dei classici che spesso finisce per irrigidire il contenuto sentimentale e autobiografico già limitato e rattratto dal suo difficile inserimento entro gli schemi allegorici generali che vogliono risolvere la personale esperienza del poeta (sulla base delle posizioni già vive nelle epistole metriche, nel Secretum e nel Canzoniere) in significati universali, validi per tutti gli uomini.

A questo sforzo piú sintetico, in cui aveva trionfato la potente e unitaria personalità dantesca, non si adattava la personalità piú mobile e inquieta del Petrarca. E cosí i Trionfi (che hanno nel complesso un che di piú rigido e senile rispetto al Canzoniere, un piú forte ritorno di elementi culturali medievali mal combinati con elementi umanistici e con il fondo lirico dell’animo petrarchesco), piú che per il tono poetico generale, valgono poeticamente o per singoli gruppi di versi che definiscono personaggi (medievali e classici: i trovatori Folchetto e Jaufrè Rudél o Scipione) o esprimono sentenze compendiose, come quella sulla caducità umana e sulla vanità della fama (dove ritornano noti motivi del Canzoniere) o per rari episodi compatti e di grande poesia, come soprattutto quello della morte di Laura e poi del colloquio del poeta con Laura morta.

E veramente nei grandi versi che dipingono la morte di Laura

(Pallida no, ma piú che neve bianca

che senza venti in un bel colle fiocchi,

parea posar come persona stanca:

quasi un dolce dormir nei suoi begli occhi,

sendo lo spirto già da lei diviso,

era quel che morir chiaman gli sciocchi:

morte bella parea nel suo bel viso)

e in quelli che prima paragonano la gentilezza del suo morire allo spengersi di una fiamma che si consuma da sé

(non come fiamma che per forza è spenta,

ma che per sé medesma si consume,

se n’andò in pace l’anima contenta,

a guisa d’un soave e chiaro lume,

cui nutrimento a poco a poco manca...)

la grande poesia del Petrarca sembra avere raggiunto una perfezione serena e soave ancora piú alta, fluida e trasparente, espressione di un animo di eccezionale delicatezza e intimità: quasi la punta estrema del piú interno processo di questa grande poesia pur entro una zona piú senile e velleitaria, ma capace di filtrare, attraverso strati culturali di per sé non poetici e poeticamente mal costruiti, una voce ancor piú profonda e lieve, una immaginazione fatta piú di disegno puro che di colore.

Ciò che appunto non deve dimenticarsi nel giudizio pur limitativo dei Trionfi come poema e nella ricostruzione della linea piú interna della poesia petrarchesca che appunto in queste pagine del Trionfo della morte trova il suo ultimo sviluppo.